Diangelomania o sindrome di 007

Trattazione descrittiva di una monomania la cui idea di riferimento è l’appartenenza all’Intelligence.

Nella pratica clinica di uno psicologo, in special modo di un terapeuta che tratta quadri di personalità patologici, non è raro osservare fenomeni comportamentali inusuali. Benché la psichiatria abbia da tempo indicato un ortodossia di segni e sintomi necessari e sufficienti per la diagnosi, essi tuttavia, per spirito di sintesi, escludono la fenomenologia meno emergente e statisticamente meno significativa; una delle ragioni per mettere in dubbio i criteri di questo approccio include, peraltro, l’implicita assunzione di un paritetico livello di gravità dei sintomi indicati (Lane e Sher, 2015). Seppur la manualistica, comprensibilmente, suddivida con rigore i disturbi di personalità (APA, 2013), non solo è quotidiana esperienza del clinico il fatto che le psicopatologie si manifestino con maggior sfumature e perimetri meno schematici di quanto la tassonomia non suggerisca, ma il lavoro diagnostico e terapeutico viene ulteriormente reso più ostico per l’intersecarsi e sovrapporsi di fattori patologici presenti contemporaneamente in quadri di personalità diversi. Ad esempio, è ben noto il continuum narcisistico che esiste fra il disturbo borderline di personalità e quello narcisistico (Adler, 1981) che si risolve per il modo diverso in cui il paziente gestisce e si difende dai propri oggetti interni idealizzati o svalutati: mentre il soggetto borderline continua a “ondeggiare” fra stati di idealizzazione e svalutazione, risultando pervasivamente poco equilibrato nel comportamento e nell’affetto, il narcisista si appoggia completamente ad un Io idealizzato, scartando rabbiosamente il suo lato non ideale o, meglio, proiettandolo rabbiosamente sulle altre persone che diventeranno materiale di manipolazione e svalutazione (Kernberg, 1985).

L’analisi psicodinamica è complicata dal fatto che non solo il quadro narcisistico condivide con l’organizzazione borderline un marcato fattore narcisistico e schizoparanoide (Nota 1), ma gli stessi elementi sono rilevabili anche in altri disturbi della personalità, finanche nel soggetto schizoide così apparentemente umile, innocuo e disconnesso dalla società e dalla competizione (Gabbard, 2000). Ciò non stupisce, infatti, prima che il disturbo di personalità borderline venisse categorizzato come psicopatologia a sé, esso era considerato uno stato al limite (Rangell, 1955) quindi un organizzazione di personalità alternativa a quella nevrotica e psicotica comune a tutti i disturbi di personalità (Kernberg, 1967). È perciò sensato affermare che tutti i disturbi di personalità dell’asse II poggiano principalmente su un cuntinuum narcisistico che va da posizioni dis-idealizzate e autosvalutative del Sé, come nel caso della personalità dipendente, a forme totalmente idealizzate e malignamente autocentrate come nel caso dell’antisociale e del narcisista puro, ad altre manifestazioni narcisistiche più eccentriche e “flamboyant” come nel caso del soggetto istrionico. Al pari, il meccanismo di difesa schizoparanoide, che impone di denegare e proiettare gli elementi inconsci non accettabili, si manifesta in diverse condizioni patologiche o subcliniche, senza che necessariamente si debba parlare di una patologia di carattere.

Questa premessa è necessaria per introdurre la disamina della bugia patologica e, quindi, di una sottocategoria di questo fenomeno, ovvero la Sindrome di 007 o diàngelomania (Nota 2) tema di questo articolo; definizioni, l’una più popolare la seconda più ortodossa, che mi pregio di coniare poiché non si trova per ora descrizione scientifica delle stesse se non marginalmente all’interno di un più ampio studio connesso alla tendenza patologica a mentire, a propria volta non categorizzata come quadro patologico in sé ma come sintomo di altre condizioni psicopatologiche.

Popolarmente pubblicizzata su internet come Sindrome di Pinocchio, la bugia patologica ha una sua definizione più accurata e riconosciuta - benché non da tutti approvata - a livello clinico ed è pseudologia fantastica, locuzione coniata dallo psichiatra tedesco Anton Delbrück nel 1891 per descrivere soggetti che fanno frequente e incontenibile ricorso alla menzogna. Vi sarebbe, quindi, una marcata differenza fra la bugia come strategia occasionale atta a togliersi da qualche impaccio o, in rare occasioni, per esaltare la propria persona e, invece, la compulsione a manipolare la realtà a proprio vantaggio, anche per futili motivi, non solo per evitare guai e reprimende o accrescere il proprio prestigio agli occhi altrui ma, malignamente come avviene nei soggetti più patologici, per svalutare le altre persone credendo di poter svettare fra coloro che vengono prostrati. Benché, poi, pseudologia fantastica e mitomania risultino sostanzialmente sinonimi, quest’ultimo termine richiama un quadro di personalità dai tratti deliranti le cui bugie assumono tanto e tale colore emotivo da persuadere lo stesso soggetto a crederle reali; non è cosa sconosciuta alle Forze dell’Ordine l’esistenza di soggetti che si autoaccusano di reati mai compiuti e che, pervicacemente, cercano di convincere gli inquirenti di essere colpevoli di un fatto di cronaca di solito sulla bocca di tutti, per lo più al fine di attirare attenzione su di sé ma anche, non di rado, di procurarsi inconsciamente una punizione, il che permette di rilevarne l’abnorme condizione superegoica che si manifesta con masochismo e, contemporaneamente, con narcisismo così come indicato dal carattere narcisistico-masochista, quel Self-Defeating Personality Disorder descritto del DSM-III-R (Cooper, 2009) poi discutibilmente eliminato nelle successive edizioni (Nota 3). All’estremo psichiatrico di questa linea della verità che vede da un capo la sincerità assoluta, abbiamo all’altro lato la confabulazione, per la quale il malato falsifica i ricordi colmando vuoti di memoria con invenzioni della propria fantasia di rado per lucida volontà ma, per lo più, come causa di severe condizioni psicotiche o neurodegenerative.

Nonostante la popolare differenziazione fra menzogna patologica e menzogna compulsiva, è necessario precisare, in primo luogo, che la psicologia e la psichiatria non riconoscono ufficialmente queste due categorie come disturbi psicopatologici se non inscritti in un più ampio quadro morboso, esattamente come avviene per il “narcisismo maligno” e la “psicopatia” che tanta fortuna riscuotono nelle letture online ma dei quali non vi è riconoscimento tassonomico da parte della scienza psichiatrica. D’altro canto, anche a rigor di terminologia, se un comportamento è compulsivo è di fatto patologico e quindi le due definizioni possono essere usate intercambiabilmente. L’autore stesso, tempo addietro, aveva proposto in un articolo internet che ha conosciuto una certa fortuna, la differenziazione fra bugia patologica e compulsiva, tuttavia precisando che: “Nonostante le definizioni proposte, spesso è difficile delineare una reale differenza fra questi due tipi di persona, in quanto […] anche il bugiardo compulsivo può mentire in maniera finalizzata ad ottenere un risultato, facendogli invadere il campo del bugiardo patologico” (Nota 4). Quest’artificiosa dicotomia risultava soprattutto necessaria a differenziare, in modo facilmente comprensibile, due tipi di soggetti. Il primo, compulsivamente bugiardo, utilizzerebbe la menzogna come difesa dalle situazioni scomode o per coprire comportamenti inappropriati; seppur il cavarsi d’impaccio tramite la bugia possa aumentare la sua autostima per una percepita autoefficacia, questo soggetto non trae una gratificazione psichica dal mentire. Questa, invece, è la posizione del secondo soggetto, il bugiardo patologico, prossimo o congruente all’organizzazione borderline di personalità, il quale mente con chiara finalità manipolativa se non anche lesiva e per il quale la bugia in sé, con un’inconscia cifra sadica e narcisistica, è un atto sottilmente gratificante. Il limite della differenziazione è evidente: ciò che è gratificante viene generalmente reiterato, finendo per assumere qualità compulsive. La scarsa autostima, inoltre, è terreno comune dei due soggetti e nel secondo assumerebbe migliore definizioni tramite le locuzioni: danno narcisistico, Vero Sé fragile o fragilità dell’Io. Per cui, partendo dal presupposto che non vi è vera differenza fra bugia patologica e compulsiva, che la psicologia clinica non riconosce la menzogna come patologia in sé ma come sintomo di condizioni morbose più ampie e che tali condizioni possono essere molto diverse nelle definizioni e nella sintomatologia, potremmo dire che si ha una manifestazione patologica della menzogna se essa si mostra come comportamento ricorsivo atto alla produzione fantasiosa e complessa di mistificazioni il cui tornaconto può essere materiale così come psicologico. Quest’ultimo tornaconto psichico è, il più delle volte, atto ad aumentare la propria autostima proteggendosi dal timore dell’altrui giudizio o da un inconscio deficit d’autostima. A completezza dell’informazione, ed onde evitare che l’etiopatogenesi della pseudologia fantastica venga giustificata unicamente e forzosamente da spiegazioni psicodinamiche, è utile citare il risultato ottenuto da una ricerca tramite neuroimaging (con risonanza magnetica strutturale) che ha visto l’encefalo di 10 bugiardi patologici, confrontati a 14 antisociali e 20 soggetti normali, come più ricchi di materia bianca (23-26%) nell’area orbitofrontale media e inferiore; questo valore potrebbe predisporre alcuni individui alla menzogna (Yang et al, 2007).

Benché, come detto, non vi sia ancora un riconoscimento della bugia patologica come di una specifica condizione clinica, né, quindi, riconoscimento e condivisione di punti diagnostici, l’esperienza empirica può confermare l’esistenza di persone la cui sintomatologia psicologica più emergente sia quella della mistificazione reiterata, ovvero la sintomatologia che, per prima, viene rilevata dalle persone che vivono a contatto con questi soggetti, i quali, se inviati in consulto specialistico - e sempre che vi si rechino - mostrano poi soggiacenti condizioni psicopatologiche e i quadri di personalità sopra indicati. Anche l’osservazione non esperta, ovvero quella delle vittime dei mistificatori, può confermare che le salienti caratteristiche del bugiardo patologico sono le seguenti: una lunga storia di abitudine alla menzogna; apparente assenza di ritorni personali per le menzogne create; enormità e/o gratuità delle menzogne, le quali possono coprire situazioni complesse (amanti, problemi di lavoro, etc.) come altre situazioni del tutto superficiali; in alcuni casi il bugiardo si mostra persuaso della veridicità delle proprie false affermazioni e può reagire con rabbia o delusione se obbligato a confrontarsi con il proprio comportamento; i soggetti legati sentimentalmente al bugiardo patologico vedono emergere in sé vissuti ambivalenti di rabbia, frustrazione, preoccupazione e delusione con un riflesso danno alla propria autostima del quale non si esclude la natura proiettiva. Proprio quest’ultimo fattore diviene centrale nell’esperienza psicoterapeutica.

La pratica clinica ci dice che il tipico paziente connesso alla bugia patologica non è il bugiardo stesso, il quale di rado consulta spontaneamente un professionista per correggere il proprio comportamento, ma un familiare o un partner che chiede assistenza psicologica poiché esasperato per il comportamento del mentitore. La prima richiesta posta al terapeuta è che questi prenda in carico il soggetto bugiardo, cosa che però, ancora, avviene di rado poiché il bugiardo patologico non rileva come particolarmente problematico il proprio comportamento e, se mai cedesse alle richieste di cura, è al fine strumentale di non scontentare eccessivamente il partner o il familiare esasperato. Nel caso il soggetto patologico accetti il percorso terapeutico, una profonda motivazione è la variabile principale per il successo del trattamento, motivazione che però, come anticipato, spesso si mostra fragile o assente. Il timore che il bugiardo menta o manipoli il terapeuta è la prima preoccupazione del conoscente esasperato, tuttavia l’esperienza clinica mostra che il primo vero limite del trattamento prestato ad un soggetto bugiardo è che questi inizia da subito a saltare gli appuntamenti, a rendere discontinui gli incontri finendo molto velocemente per “droppare”, ovvero abbandonare il percorso. In un caso che mi ha visto personalmente protagonista, un uomo raccontava alla moglie di quanto fosse soddisfatto degli incontri terapeutici tenutisi nel mio studio e di come, con grande facilità, io fossi stato capace di fargli emergere dei significativi ricordi d’infanzia; un racconto edificante per me, per lui e per la moglie che fu intrattenuta dal marito per tre quarti d’ora a settimana con i resoconti delle mie valide capacità professionali espresse in due colloqui di un’ora l’uno. Peccato che io non ebbi mai modo di parlare con il soggetto, il quale mai si presentò agli incontri, inventandosi quindi dialoghi e circostanze di sana pianta. Si noti, in questo episodio, il fattore gratificante della menzogna: l’uomo avrebbe potuto liquidare la finta presenza nel mio studio con due parole; novanta minuti di pseudologia fantastica su eventi mai avvenuti non possono trovare mera giustificazione nel desiderio di tranquillizzare la moglie in ansia circa l’impegno terapeutico. Fra le varie occorrenze che la psicoterapia connessa alla bugia patologica mi ha permesso di indagare, ve n’è una che potrebbe essere definita una sottocategoria tipicamente maschile, la quale ho notato essere più ricorsiva del previsto, il più delle volte riferita con sconcerto da coloro che erano stati testimoni di bizzarri racconti inventati dal mentitore di turno. Data la costellazione tipica di mistificazioni con un tema portante connesso al mondo dell’intelligence, militare o civile, nonché alcuni spunti ideativi e idee di riferimento tipiche, definisco questo fenomeno di seguito descritto Sindrome di 007 o, con maggiore attenzione etimologica, diàngelomania.

diangelomania, sindrome di 007, intelligence, intelligence italiana, sismi, sisde, copasir, sicurezza repubblica, sicurezza interna, bugiardi patologici, terrorismo, servizi segreti, millantare credito, dire di esere delle forze dell'ordine, dire di essere un agente segreto, agenti segreti

Le menzogne di questi soggetti si strutturano come una monomania, termine dell’antica psichiatria ormai pressoché desueto che evidenziava più il contenuto che il disturbo formale del pensiero, termine che, però, descrive appropriatamente un’idea di riferimento che s’inscrive in un quadro di personalità tutto sommato integro e funzionante. Questi soggetti paiono condurre un’esistenza ben integrata in società, non priva di soddisfazioni sul piano relazionale, affettivo e lavorativo. Tuttavia non di rado sono interpreti e protagonisti di quadri affettivi sbilanciati e disequilibrati, non rari alla menzogna anche in altri ambiti non direttamente connessi al mondo dell’Intelligence. A diversi conoscenti scelti forse non a caso, probabilmente secondo una logica che possa esaltare appieno il loro narcisismo, e quindi più spesso di sesso femminile, essi raccontano ricorsivamente di essere connessi in qualche modo al mondo dell’intelligence militare e/o civile, suggerendo l’idea di aver operato o di operare come agenti del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica (Nota 5). Al fine di essere più persuasivi, essi possono dare sfoggio di competenze relative alle armi, a tecniche di sopravvivenza, a skills informatici o ad addestramento fisico peculiare (arti marziali, ad esempio), ogni cosa, insomma, che potrebbe idealmente ed iconograficamente ricondurre al lavoro d’intelligence. Spesso gli indizi addotti sono risibili, poiché tali temi e competenze possono essere facilmente reperiti da qualsiasi cittadino in internet o attraverso altri media; tuttavia, ascoltando coloro che riferiscono di questi comportamenti, ciò che pare più convincente è il tono emotivo con cui vengono narrati questi particolari più che le tematiche trattate: i soggetti si mostrano guardinghi, stressati per le gravose incombenze di una “doppia vita”, alterati, a tratti si eclissano adducendo incontri e contatti misteriosi, i quali, il più delle volte, e a un’attenta analisi, nascondo più prosaicamente “segrete” frequentazioni con altre donne.

Ovviamente la gratificazione psicologica che questi soggetti provano nello strutturare e nel riferire queste fantasie causa, in primo luogo, una distorsione cognitiva che impedisce loro di riflettere sul fatto che la locuzione servizi segreti sia composta da un inequivocabile aggettivo che determina, come requisito fondamentale, che l’operato dell’intelligence sia basilarmente caratterizzato dalla riservatezza, che mal si addice a racconti magniloquenti e sinistri di sé come un agente dalla doppia vita che, come una cellula dormiente, agisce nell’ombra in attesa di una fantomatica chiamata all’azione. Benché nessuno escluda che vi siano agenti operativi dell’Intelligence italiana come straniera che conducano un’insospettabile vita civile, è oltremodo inverosimile e controproducente che questi stessi soggetti notizino amici e partner, fra l’altro in modo decisamente grossolano, del loro impegno istituzionale. Benché non si abbia pubblica conoscenza dei protocolli di selezione utilizzati dal Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, i quali saranno peraltro diversificati in base ai ruoli assegnati, è lapalissiano che non siano ritenuti idonei i soggetti umorali o dall’emotività accentuata o non in grado di gestire fattivamente ed emotivamente il lavoro; ne deriva che le manifestazioni emotive e comportamentali eccessive di questi soggetti, da loro giustificate come conseguenza della vita da agente segreto, trovino in questa mistificazione una valida scusa che, al contempo, ne accresce narcisisticamente l’autostima.

Casi inquietanti di diàngelomania si possono rintracciare nelle biografie di due noti killer: Roberto Succo e Angelo Izzo. Il primo, pluriomicida squilibrato evaso dalla detenzione Italiana, si trovava nel 1988 in Francia convivente con una ragazza di Tolone alla quale raccontava di essere un agente segreto sotto copertura, il che giustificava il suo comportamento misterioso e incostante determinato dalla latitanza e dall’aver lasciato un’inquietante scia di sangue dietro di sé. La giovane sedicenne finirà comunque per lasciare Succo, esasperata dai suoi comportamenti violenti anche sotto il profilo sessuale. La mitomania di Succo non era semplicemente strumentale: diagnosticato psicotico paranoide e con idee di superiorità, egli aveva intercettato nel mito del agente segreto una figura a lui affine. L’interessante film Roberto Succo (2000) di Cedric Kahn descrive con sufficiente dovizia di particolari le gesta e la persona dell’omicida che finirà per suicidarsi in carcere. D’altra parte, Angelo Izzo, il cui quadro criminoso e psicopatologico ha permesso giustamente di definirlo serial killer, ha cercato di manipolare il sistema giudiziario inventando storie che non hanno mai trovato riscontro, che l’avrebbero visto connesso a imprecisati movimenti a volte sovversivi, altre volte istituzionali ma deviati, coerentemente con la sua antisocialità: “Il mio apprendistato cominciò a sedici anni quando, espulso dall’associazione giovanile dell’MSI, entrai in ambienti extraparlamentari che mi addestrarono al terrorismo” (Mastronardi e De Luca, 2006; p.828).

Diversamente da questi soggetti la cui pericolosità sociale è drammaticamente provata, più comunemente la diàngelomania si osserva in persone ben integrate e ben funzionanti in ambito lavorativo, ambito, anzi, nel quale possono anche arrivare ad eccellere; è provato, d’altronde, il fatto che soggetti antisociali e narcisistici abbiano buoni outcomes lavorativi (Spurk et al., 2015) soprattutto in fase assuntiva (Paulhus et al., 2013). La dimensione relazionale, invece, sembra partecipare alla fragilità e alle insicurezze strutturali che paiono essere alla base della diàngelomania stessa. Questi uomini paiono collezionare relazioni sentimentali, anche sovrapposte, mentre alle varie partner (Nota 6) raccontano in maniera più o meno diretta, più o meno manipolativa, della loro “doppia vita”. Come detto, queste fantasiose narrazioni pongono il loro accento più marcato sulla componente emotiva più che su quella aneddotica e anche grazie a ciò, al soggetto non vengono fatte troppe domande specifiche. Le partner, inoltre, non hanno generalmente una grande cultura in ambito di armi, mondo militare o d’intelligence, quindi risultano raggirabili con poche e/o inesatte nozioni. Non dimentichiamo, infatti, che la finalità non è mai quella di istruire un dettagliato racconto dell’operatività d’intelligence, della quale, di fatto, tali mistificatori non sanno nulla se non ciò che possono aver estrapolato dai media, ma piuttosto questa pseudologia è il viatico per esprimere un’emotività instabile e per accrescere in maniera obliqua la loro autostima.

Per comprendere o ipotizzare i meccanismi psicodinamici di questi uomini non è necessario conoscere il mondo dell’Intelligence ma è sufficiente, com’è stato sufficiente per loro, analizzare iconograficamente la figura dell’agente segreto (Nota 7). È innegabile, almeno idealmente, il fascino dell’uomo al servizio dell’Intelligence, soprattutto se a quest’uomo facciamo completamente sovrapporre figure letterarie e cinematografiche la cui fortuna non sembra conoscere declino. James Bond, capostipite e principe delle spie al servizio del bene, è un uomo dall’oscuro passato e senza famiglia (Nota 8), non più giovanissimo ma di una indiscutibile bellezza matura. Non è solo la sua prestanza fisica ad attirare le donne che si concederanno a lui con gran facilità - molte delle quali “dovranno” pagare a caro prezzo la fortuna di essere entrate in contatto con quest’uomo chimerico - ma è soprattutto il suo carisma di maschio in pieno controllo dell’ambiente e della situazione a determinarne un fascino che, negli anni ’80 venne popolarmente definito come quello dell’uomo “che non deve chiedere mai”. James Bond, lupo solitario, non è mai privo di compagnia femminile proprio in virtù del fatto che non la cerca, non sembra desiderarla attivamente, e questa autonomia affettiva, e il mistero che la circonda, pare funzionare come un magnete per le donne che, così vuole lo stereotipo filmico nonché un certo stereotipo condiviso socialmente, non resistono alla tentazione di sedurre l’inseducibile per mettere alla prova il loro personale senso di autostima, facendo quindi degli incontri amorosi con Bond il proverbiale incontro di due egoismi e di un narcisismo speculare. L’agente segreto è un uomo libero per indole e per necessità, forse schiavo solo del proprio vincolo lavorativo; in realtà, Bond è una creatura che può esistere solo in funzione del suo lavoro perché in esso i suoi tratti di personalità trovano una quadratura che portano la sua persona allo stato dell’arte. Come è stato fatto notare da Jonason e colleghi (2010), la personalità di James Bond richiama la Dark Triad (Paulus e Williams, 2002), ovvero la combinazione di macchiavellismo, narcisismo subclinico e antisocialità subclinica che andrebbe a strutturare una particolare costellazione di tratti di personalità e comportamenti capaci di mettere in grado la persona di districarsi strumentalmente nelle relazioni interpersonali e trarre da queste vantaggio. In una società in cui i sentimenti di altruismo, simpatia ed empatia vengono portati a modello come fondamenta del vivere civile, il soggetto che si distingue per quella triade di tratti si trova nella condizione di dover dissimulare la propria natura al fine di non destare il sospetto di essere un algido manipolatore; quindi appare estroverso, aperto, di elevata autostima apparente, bassa ansietà, individualista e competente. Questo, potremmo dire, il sintetico profiling psicologico di James Bond e, più generalmente, dell’agente segreto per come viene iconograficamente inteso dalla letteratura e dal cinema. È sostanzialmente questo il profilo a cui tenta di aderire il soggetto con diàngelomania, partendo da una costellazione di tratti personali affini a quelli indicati dalla Dark Triad la quale sottintende, peraltro, comportamenti indesiderabili quali aggressività, opportunismo sessuale e impulsività e che può essere valutata e quantificata con un semplice strumento d’indagine, la Dirty Dozen scale (Jonason e Webster, 2010). Si evince che l’apparente self-confidence dell’uomo con Sindrome di 007 nasconda una marcata vulnerabilità a livello narcisistico che egli compensa ricorsivamente con racconti e idee che lo vedono protagonista di una realtà speciale e selezionata, capace potenzialmente di compiere azioni non adatte o interdette ai comuni cittadini, con l’aggiunta di una sottintesa cifra di pericolosità sociale però inespressa, la quale, tuttavia, potrebbe funzionare come deterrente per i conoscenti, e soprattutto le partner, rispetto a comportamenti che potrebbero irritare la fragile emotività di questi soggetti. Il pensiero paranoide sembra essere un fattore sottinteso nel quadro personologico di questi uomini, i quali, non a caso, scelgono l’icona spionistica come modello d’identificazione. Sempre a livello popolare, il mondo dell’intelligence, la segretezza, il pericolo che essa venga violata da malintenzionati o che essa stessa violi la privacy dei cittadini, ben si addicono ai timori e agli spunti paranoidi. D’altro canto, il meccanismo di difesa proiettivo, alla base del processo paranoide, è il medesimo adottato dal soggetto narcisista, il quale, come esposto in precedenza, non accetta e proietta fuori di sé i fattori non idealizzati del proprio Io: mentre il paranoide viene perseguitato dagli elementi negati e proiettati nel mondo esterno, il narcisista provvede ad un’ulteriore svalutazione dopo averli posti al di fuori di sé e nelle altre persone, disprezzandoli e aggredendoli con rabbia.

Una variazione di questo quadro sindromico, simile a livello psicodinamico, è quella di coloro che dichiarano, mentendo, di appartenere ad associazioni esoteriche o segrete quali massoneria, culti religiosi, etc. Tra l’altro, la creazione di micro-associazioni esoteriche o culti religiosi anche di stampo satanistico, pare rispondere principalmente alla necessità psicologica di sentirsi parte di qualcosa di speciale ed eletto (tratto narcisistico), distaccato dalle altre persone e dalla vita comune (posizione paranoide), per poi dare vita ad attività che determinano qualitativamente il quadro personologico degli appartenenti e ancor più dei fondatori. Questi gruppi possono essere finalizzati all’organizzazione d’incontri sessuali ammantati di una bizzarra e giustificativa ritualità, allo studio di argomenti esoterici e alla pratica di attività ritenute magiche o a comportamenti criminosi e omicidari.

Non possono sfuggire dall’analisi esplorativa di un fenomeno che meriterebbe ancor più approfondito studio, i punti di contatto fra diàngelomania, organizzazione borderline di personalità e terrorismo. Da tempo la scienza psicologica ha rilevato come la figura del terrorista possegga caratteristiche sovrapponibili a quadri di personalità patologici (Tzachor-Vaisman, 2006), cosa che può avere di certo un’utilità preventiva nella lotta al fenomeno terroristico, fattore recepito da tempo dalle Forze dell’Ordine e dall’Intelligence estera (Strentz, 1988) come italiana (Delicato, 2008). È stato, ad esempio, ipotizzato che possa essere utile categorizzare i terroristi antisociali come gruppo a sé per meglio prevenire e intervenire (Martens, 2004). Johnson e Feldman (1992) reputano i gruppi terroristici come composti da tre tipi di individui: il leader carismatico, la personalità antisociale e i seguaci. Il primo si caratterizzerebbe per essere un soggetto distaccato, arrogante, narcisista ma intelligente, il cui patologico processo interno di idealizzazione si riflette su una percezione manichea della realtà, vista come bianca o nera, giusta o sbagliata. Il gruppo terroristico si offrirebbe al leader come teatro vivente sul quale proiettare e far agire la propria rabbia narcisistica; la loro ossequiosità e dipendenza ne alimenterebbe l’ego. Gli individui antisociali interni al gruppo terroristico hanno non solo il placet ma l’incentivo ad usare la forza e la violenza per realizzare i loro fini; per l’antisociale, il gruppo terroristico funzionerebbe come una famiglia che offre libertà d’azione e prestigio difficilmente ottenibili al di fuori del gruppo criminoso (Perlman, 2002). Parte dei terroristi, poi, e non certo il segmento minore, sono proni seguaci con un vivo desiderio di accettazione sociale, i quali, condividendo la posizione schizoparanoide del leader, partecipano ad una visione del mondo abitata da “loro vs tutti gli altri” (Walsh, 2012). Poiché essi regolano il loro senso di autostima tramite l’attenzione e le reazioni della comunità, che amplifica il dramma sociale e quindi il potere dell’attentatore, i gruppi terroristici divengono dipendenti dal loro mortifero agire, così come è per il serial killer. Con ciò, riescono ad affascinare un’ampia platea di accoliti, i quali aderiscono non tanto per precaria condizione sociale - è noto che moltissimi di essi siano ben integrati nella cultura sociale che decideranno di attaccare - ma piuttosto per “affinità elettiva”, ovvero similitudine di quadri psicopatologici i quali hanno tutti, al loro nucleo, il desiderio di emergere in una forma idealizzata per quanto negativa. Alla ricerca spasmodica di un’identità che non sia mediocre e che non risuoni con una remota ferita narcisistica, la nuova identità di portatore di morte pare una migliore scelta di vita. Per giustificare questa apparente contraddizione (dissonanza cognitiva), il terrorista si percepisce e vuole essere percepito come “in missione per conto di Dio”, ovvero soggetto proclamato - ma più spesso autoproclamatosi - a protezione di un gruppo, il proprio, la cui esistenza è minacciata da nemici esterni: una posizione psicologica che, contemporaneamente, sottolinea l’abnormità della loro condizione superegoica, dei loro spunti ideativi paranoidi e del loro narcisismo.

La diàngelomania, che, si ribadisce, è la pervicace e fraudolenta tendenza a descriversi come persone connesse all’intelligence e non, si badi, ossessivamente interessate al mondo dell’intelligence, seppur non abbia la qualità del sintomo patognomico e quindi non determini di per sé la presenza di un quadro di personalità patologico come quelli poco sopra descritti, è tuttavia suggestivo di un’importante condizione psicopatologica. Il fatto che alcuni criminali, peraltro seriali, abbiano fatto ricorso, come sommariamente indicato, a fantasie narcisistiche di tipo diàngelomaniacale, getta un’ulteriore luce sinistra sul rischio sociale rappresentato da questi soggetti, i quali potrebbero permanere in una condizione subclinica a vita, oppure slatentizzare comportamenti violenti e socialmente dannosi a causa di un trigger endogeno od esogeno, così come avviene probabilmente per alcuni individui che aderiscono a gruppi terroristici i cui aneliti sovversivi non hanno, nel concreto, nessuna possibilità di realizzarsi nella loro completezza. Quest’ultima considerazione determina, peraltro, la qualità soprattutto psicologica prima che politica di certo terrorismo.

Sul piano meramente socioculturale, invece, resta interessante notare l’imperituro fascino della figura del più noto agente segreto al mondo, ossimoro non casuale. 007 et similia - si pensi anche a Jason Bourne della fortunata serie cinematografica esordita con The Bourne Identity (2002) - non smette di attrarre per il potere e l’aura di libertà che lo circonda. La sua vita non è stanziale come quello dei “comuni mortali” eppure il suo nomadismo non è squallido e indigente bensì ricco e di classe: belle macchine, ottimi alberghi, cibi raffinati; i soldi per lui non sono un problema. Ciò che turberebbe la gente comune, per 007 è ordinaria amministrazione: il viaggio, l’inconveniente, l’amore, gli addii, la morte. Poi, come ovvio, parallelamente alle mille capacità che vanno dal multiliguismo a un utilizzo brillante di armi e mezzi, l’agente segreto è un perfetto amante benché non sia esattamente chiaro come la sua programmatica intolleranza al legame sia così erogena per le infinite donne che si offrono a lui con profondo abbandono. Sembra proprio che l’agente d’intelligence, così come descritto dal cinema e dalla letteratura, sia una sorta di proiezione narcisistica idealizzata del maschio, una sorta di principe azzurro post-moderno aggiornato all’era tecnologica che solo negli ultimi film, e per influsso di un’attuale e generalizzata corrente cinematografica che rilegge l’eroe in un’accezione più disillusa, inizia a mostrare il fianco alle fragilità psicologiche del protagonista. Anche così, evidentemente, o forse proprio per la sua riscoperta umanità, James Bond e consimili non smettono di affascinare, benché la vera Intelligence italiana come quella straniera, non facciano segreto del fatto che il lavoro svolto in concreto, seppur coperto da un’innegabile affascinante segretezza, sia il risultato di una quotidiana professionalità che accetta anche le incombenze routinarie e non consente che i propri agenti si rendano responsabili di comportamenti sproporzionati rispetto agli obiettivi con danno all’incolumità privata, pubblica e istituzionale, il che è ben diverso dalle magniloquenti, roboanti, personalistiche e narcisistiche esibizioni dell’agente segreto da locandina. L’agente segreto da locandina che, invece, diventa oggetto d’identificazione patologica per il soggetto con diàngelomania.

Note

Nota 1 - “La posizione schizoparanoide, di per sé non patologica, è una modalità fondamentale di organizzazione dell’esperienza che permane nella psiche umana per tutta la durata del ciclo vitale. Utilizzando questa modalità, pensieri e sentimenti pericolosi o spiacevoli vengono scissi, proiettati fuori di sé e attribuiti agli altri. Questa modalità è facilmente riscontrabile in tutti i tipi di esperienze di gruppo, quali assemblee politiche, eventi sportivi e dinamiche istituzionali.” (Gabbard, 2000, p.410). Risulta oltremodo interessante lo studio di questo meccanismo di difesa psicologico per la comprensione degli attuali fenomeni di terrorismo.

Nota 2 - Dal greco δίαγγελος (diànghelos) = agente segreto, internunzio, esploratore.

Nota 3 - L’eliminazione di questo disturbo di personalità dipese soprattutto da controversie sociopolitiche connesse al fatto che esso fu spesso adottato come spiegazione e difesa dei partner maschili nei casi di violenza domestica, anche per una preconcetta equiparazione della femminilità alla sottomissione. Nonostante l’esclusione dal DSM-IV in avanti, il quadro narcisistico-masochista è sovente riconosciuto ed osservato da diversi clinici, di fatto è un costrutto che spiega con facilità molte dinamiche relazionali (Millon, 2004). Diversi studi suggeriscono che il disturbo sia molto più comune di quanto si pensi (Kass, 1987).

Nota 4 - Leggi articolo Bugiardo Patologico

Nota 5 - Faccio esplicito riferimento all’Intelligence italiana perché ad essa fa riferimento la mia personale osservazione clinica; è indubitabile che altri soggetti, sia in Italia sia soprattutto all’estero, facciano riferimento ad agenzia d’Intelligence straniere.

Nota 6 - Non ho notizia di questa condizione fra gli omosessuali ma, reputo, solo per limite del campione statistico.

Nota 7 - Non va dimenticato che compiti d’intelligence vengono, da decenni, attribuiti anche alle donne. La mia descrizione si concentra sui soggetti maschili poiché essi riflettono semplicemente la mia peculiare osservazione clinica. Non di meno, sempre iconograficamente, rimane il soggetto maschile ad incarnare con più facilità la figura dell’agente segreto ciò probabilmente in virtù di alcuni preconcetti sociali che trovano più complesso far aderire una certa tradizionale idea di donna all’idealizzata immagine della spia, algida e senza legami. Questo dà la misura di quanto siano divergenti gli stereotipi legati all’Intelligence, dal concreto lavoro d’intelligence che ovviamente non viene svolto solamente da agenti con preparazione militare impegnati territori esteri, ma, è lecito immaginare, da molti analisti e tecnici che svolgono lavoro d’ufficio.

Nota 8 - Circa questo fattore, si può ipotizzare una rilettura del romanzo familiare (Freud, 1908) del soggetto e, forse, di una condizione di neglect patita nell’infanzia, per cui, a livello fantastico, la famiglia viene soppressa o negata.

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