Il mobbing entra in famiglia

Cosa accade quando i problemi di lavoro avvelenano l'ambiente domestico?

Colloquiando con i pazienti che hanno subito violenza psicologica al lavoro, si riconosce immediatamente come variabile protettiva la presenza di una famiglia alle spalle. Attenzione però, non una famiglia che di familiare e protettivo ha solo il nome, ma una famiglia intesa come almeno una persona che, per affetto, sta dalla nostra parte, crede in noi. Le storie di alcuni soggetti incontrati erano terrificanti, ingiuste, dolorose, permeate di un’illogicità che avrebbe portato allo scompenso chiunque; non però chi poteva sempre fare riferimento sulle logiche del bene contenute nell’abbraccio di un familiare, un fidanzato, un genitore. La presenza di qualcuno dalla nostra parte può fare davvero la differenza fra il perdersi e il ritrovarsi.

Essere il familiare di un soggetto mobbizzato non è però facile. Il più delle volte significa dover assorbire per lungo tempo le ansie, lo stress e il rancore di chi ci sta accanto. La dinamica di ascolto sembra seguire alcune fasi nelle quali l’impegno psichico del familiare per gli accadimenti lavorativi del partner o del parente segue un’oscillazione irregolare che passa da fasi di grande attenzione e partecipazione, a fasi di stanchezza ed esasperazione per la situazione emotiva del familiare, fino ad una fase “terminale” in cui il malessere del lavoratore ha logorato le capacità di coping (1) dei familiari da troppo tempo alle prese con la gestione della rabbia e della frustrazione del primo, finché la comprensione e l’appoggio offerto per diverso tempo vengono sottratte o si riducono ad una facciata.

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L'immagine sovrastante illustra le fasi e le controfasi di questa dinamica che cercherò di chiarificare prendendo come esempio paradigmatico il caso di un lavoratore e di sua moglie. Agli esordi del problema, il lavoratore riferisce alla moglie, in toni non drammatici, gli accadimenti stressogeni che sta vivendo, ed ella ascolterà questi racconti con vivo interesse (I fase). Tuttavia, tali racconti, reiterati, porteranno la donna ad una prima controfase che consisterà in consigli ed aiuti verbali atti a ridurre la criticità degli eventi ascoltati, tramite analisi generalizzanti (“sono cose che succedono”, “al lavoro è sempre così”, “sono periodi così per tutti”) che in buona fede mirano a tranquillizzare il marito ma che, indirettamente, vorrebbero tranquillizzare anche chi le pronuncia. Siccome i problemi lavorativi non sembrano avere una soluzione celere e il compagno torna costantemente su tali criticità, iniziando a mostrare un comportamento nervoso e/o depresso, la partner inizia a percepire che l’evento da lei stesso definito circostanziato comincia invece ad assumere aspetti cronici: la moglie si preoccupa (II fase). Lo stress del compagno inizia a propagarsi nell’ambiente domestico e, se da un lato la moglie si avvicina anima e corpo al partner (che invece si sta allontanando anima e corpo perché progressivamente fagocitato dalle problematiche lavorative), dall’altro avverte vissuti d’impotenza che innescano le prime pulsioni aggressive, benché per lo più inconsce. Esse si manifestano nella II controfase che è caratterizzata dal consiglio “Cerca di farti scivolare le cose addosso” o “Prova a non darci peso” la cui natura semplificante è avvertita più o meno direttamente dal marito che capisce di non essere capito dalla persona sulla quale avrebbe fatto più affidamento; questo sentimento di incomprensione inizia ad accrescere vissuti di sfiducia nelle persone aumentando sia la dimensione di vittimizzazione che componenti paranoidee. Cercare di non pensare ai problemi sul lavoro e staccare da essi una volta tornati a casa è, di fatto, un consiglio sbrigativo e superficiale, benché sempre offerto a fin di bene, dato che il lavoratore avrà già tentato di suo, e come prima mossa, di “far finta di niente”, strategia però fallimentare così come lo sarebbe cercare di non badare a qualcuno che ciclicamente ci dà delle martellate sulle dita (2). La controfase della semplificazione rivela la sua natura di compromesso fra il desiderio di aiutare il coniuge e la pulsione uguale e contraria di allontanare da sé, sbrigativamente, il problema, proiettando sull’altra persona questo desiderio di liquidare il più velocemente possibile qualcosa che inizia ad essere avvertito come lesivo.

Con il progredire del disagio del marito, si entra nel periodo più critico (peraltro in fisica il “periodo”, o oscillazione doppia, è la somma di una fase e della controfase successiva). Il malessere comincia a manifestarsi con sintomi psicofisici palesi ed esso inizia ad ottenere la certificazione del medico di famiglia o di altri professionisti della salute. In casa, poi, le cose volgono al peggio su vari fronti: collaborazione domestica, educazione dei figli, tempo libero, sessualità, ognuna di queste cose viene intaccata negativamente. La moglie dell’esempio, sinceramente allarmata, accompagna il coniuge sia durante l’iniziale fase di accertamenti che nell’ennesimo ascolto di una situazione che ora ha manifestato tutta la sua criticità, cronicità e anche originalità, ovvero lo scostamento da ciò che di solito è normale avvenga al lavoro. Quindi, la posizione della generalizzazione in cui si cercava di consolare il marito convincendolo che certi mali sono comuni, viene completamente abbandonata a favore di una fase di complicità psicologica in cui si condivide il vissuto che quello che sta accadendo è frutto di un destino ingiusto che ha colpito la coppia come un incidente “uno su un milione”. La criticità di questo periodo, tuttavia, sta nel fatto che l’aggressività subita sul lavoro non trova altro sfogo se non in ambiente domestico, sia in modo manifesto (litigi, grida, etc.) sia in modo passivo (assenze, apatia, etc.) e tale aggressività riversata sulla coniuge sarà contenuta e bonificata fintantoché ella mostra di avere una capacità di coping funzionale e funzionante. Tuttavia, come è accaduto al marito il quale dopo mesi di vessazioni ha iniziato a crollare sotto il peso dello stress, così avviene per la moglie sotto il peso dello stress importato dal marito e quest’ultimo inizia ad essere avvertito inconsciamente dalla consorte come una minaccia all’integrità del proprio equilibrio psicologico, esattamente com’è avvertito il mobber dal lavoratore. Secondo un principio di propagazione contaminante, quindi, il disagio psicologico si trasmette dal mobber al lavoratore, da questi alla moglie e, se ci fossero figli, a questi ultimi. Come in ogni situazione minacciosa che, all’apparenza, non presenti l’occasione di risoluzioni, l’istinto inizia a governare l’azione e la moglie precipiterà in una controfase di difesa aggressiva non scelta a caso, dato che questo sentimento proviene dal motore primo del disagio, il mobber. I consigli che offrirà al marito, a questo punto, suonano come delle fastidiose sveglie: “Devi reagire”, “Smettila” oppure aggrediranno il soggetto in forme passive con attribuzioni di responsabilità “Cosa vuoi fare? Licenziarti con il muto che abbiamo?”, “Dove trovi un altro lavoro?”, “Cosa facciamo?” che fanno precipitare il vessato in un più profondo caos emotivo, in cui si avverte ormai indiscutibilmente come vittima e come “uno contro tutti”. Riguardo a ciò non a caso si parla della sindrome da corridoio indicando appunto l’incapacità di distinguere tra la sfera lavorativa e la sfera della vita privata. Essa ha luogo quando la famiglia genera o amplifica le tensioni fisiche, emotive e comportamentali restituendole al contesto lavorativo in un ciclo autogenerante. Se non intervengono fattori risolutivi per il lavoratore, ed egli continua a permanere in una situazione di disagio, allora diviene altamente probabile che la partner, uscita dall’ultima controfase, non torni più ad un clima di complicità e supporto ma “rimbalzi” ciclicamente fra fasi di contenimento (dei propri vissuti negativi e di quelli del coniuge) e di distacco psicologico da quest’ultimo, nascondendo sentimenti di delusione e, ancora, aggressività. Nelle fasi positive la moglie cercherà quindi di adattarsi alla situazione familiare ormai cronicamente danneggiata, mentre quando la rabbia per tale situazione si accumulerà fino all’esasperazione, allora cercherà la salvezza tramite una fuga dal marito (più mentale che fisica).

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È quindi questa la condanna senza appello di ogni famiglia che ospiti soggetti mobbizzati? Assolutamente no, quella sopra esposta è l’ipotesi peggiore, soprattutto nella sua fase terminale. Così come il male ha la capacità di propagarsi e generare effetti da cause, così può il bene. A questo punto occorrerebbe capire quanto il marito di cui sopra, ancor prima delle avversità lavorative, avesse investito “bene sul proprio bene”, ovvero sulla donna che ha sposato, perché se ciò fosse avvenuto, per la saggezza di chi diversifica le proprie energie fra lavoro, casa, interessi, eccetera, allora è probabile che nella moglie troverebbe un’instancabile alleata strategicamente più lucida di lui, capace di affiancarlo e anche guidarlo. Infatti, a meno che non si abbia a che fare con inguaribili egoisti o con soggetti disturbati (se ne colga la ridondanza), coloro ai quali abbiamo dato, soprattutto sul piano affettivo, saranno predisposti a ricambiare il bene ricevuto. Se pensate che queste siano solo belle parole senza base scientifica, eccovi le prove. La moderna ricerca di Fowler e Christakis (2010) ha mostrato come il comportamento cooperativo (→) si propaghi fra gli individui non solo ad un grado di separazione (ad esempio Marito → Moglie) ma a ben tre gradi di separazione fra persone non più connesse da legami (quindi Marito → Moglie → Figlio → Amico del figlio) e ciò con caratteristiche di persistenza (Marito → Moglie → Figlio / Moglie → Amica / Moglie → Collega / …) favorendo quindi l’emergere dell’altruismo. Ovviamente un comportamento dannoso e non cooperativo avrà le stesse qualità di propagazione. Il familiare sarà quindi tanto più pronto e sollecito alla comprensione e all’aiuto quanto più avrà avuto dalla persona in difficoltà delle “lezioni” positive: ecco perché amare chi abbiamo accanto è un investimento sul breve e sul lungo termine, per una migliore qualità di vita sia nel nostro microcosmo familiare che nel macrocosmo sociale. A riscontro di ciò ho potuto sentire dalla voce di tanti sfortunati protagonisti di vessazioni lavorative che la loro reale fortuna, ancora riconosciuta lucidamente come suprema fortuna, era la vicinanza di un compagno (o compagna o famiglia) che, nella cattiva sorte, era pronto a schierarsi dalla loro parte. Dalla loro parte nonostante tutto e in ogni caso. A queste persone, non ricche, né giovani, magari prive di titoli di studio od altre facilitazioni pensabili, ho sentito dire “Qualcosa riuscirò a fare”, frase spartiacque che separa coloro che alla fine gireranno l’angolo da quelli che si troveranno isolati in una palude dalla quale non credono più di poter uscire. Dalla commozione di questi individui nel riferire quanto fosse salvifico l’amore di coloro che avevano concretamente vicino, traspariva il comprensibile dolore di essere diventati portatori, in casa, di un male del quale non erano però colpevoli. Ma era anche il pianto felice di chi, superstite, è sopravvissuto grazie ad una forza opposta a quella che l’ha colpito.

Questo è dunque il potere che possono esprimere le persone che vivono accanto a chi si è ammalato non per colpa del lavoro ma per colpa di qualcuno che lo abita in modo abusante. Chi sta accanto al mobbizzato può essere complice della cura, nei farmaci e nella psicologia, e diventare persino la cura primaria, la più capace di guarire. Può però anche essere il danno aggiuntivo, la sindrome, andando a scrivere un triste romanzo familiare.

(1) Con capacità di coping (dall’inglese to cope, fronteggiare) in psicologia s’intende la capacità dell’individuo di far fronte mentalmente e fattivamente ai problemi o alle situazioni che incontra. Una buona capacità di coping consentirà lo sviluppo di strategie risolutorie e dell’energia per sopportare fasi stressogene, una ridotta capacità di coping porterà il soggetto ad essere soverchiato dal problema e ad avvertire un malessere psicofisico ingovernabile. La capacità di coping non può essere azzerata completamente ma può essere maladattiva (non-coping). Come molti altri fattori psicologici, la capacità di coping fra soggetti è variabile e dipende da predisposizioni congenite e fattori ambientali, infatti tale capacità, innata, è elastica e può anche essere rinforzata.

(2) Uno dei principali fattori implicanti l’impossibilità ad adattarsi alla violenza psicologica sul lavoro, è che essa ha una natura discontinua e quindi non presuppone la possibilità di abituarcisi, così da non percepire più lo stimolo. Infatti, se gli stimoli fossero costanti ma precisamente scadenzati, per quanto negativi, potrebbero essere previsti e ciò ne limiterebbe in parte il danno psicologico. Tuttavia il mobber tende ad agire in modo discontinuo, avvicinando a sé la vittima e poi colpendola, in tempi e modi imprevedibili, generando un clima di terrorismo psicologico.

FOWLER J.H., CHRISTAKIS N.A., 2010, Cooperative behavior cascades in human social networks. Proceedings of the National Academy of Sciences, 01/2010, 107: 5334-5338.